Friday, March 27, 2015

Polinesia: il mito delle isole del sesso e dell'amore

"I Tahitiani non hanno altro dio che l'Amore, ogni giorno è consacrato ad esso, l'isola intera è il suo tempio, le donne i suoi idoli e gli uomini i suoi adoratori."
                                            (Philibert Commerson)

Le tre isole più famose della Polinesia Francese, Tahiti, Bora Bora e Moorea, sono spesso chiamate dai tour operators "le isole dell'amore". Questo soprannome è vecchio di secoli e risale ai primi incontri tra gli europei e gli abitanti della Polinesia, nel 1700. Ma l'amore a cui si riferiscono le agenzie di viaggi di quest'epoca, quello di chi va a Tahiti per trascorrere la luna di miele, non è esattamente la versione che intendevano i marinai che arrivavano in queste isole.

La citazione che ha iniziato questo articolo appartiene a un naturalista francese che visitò Tahiti durante il suo giro del mondo tra il 1766 e il 1769, descrivendo i costumi dei Polinesiani, e notando, come gli indigeni fossero disinibiti rispetto ai canoni europei, come le donne si concedessero facilmente (ai mariti ma anche agli amici dei mariti) e come l'"amore libero", il sesso praticato in pubblico per puro piacere, fosse diffuso e accettato in quel paradiso tropicale privo di qualsiasi condizionamento della cultura europea.

Nativi Tahitiani, XVIII secolo
Lo stesso stupore lo avevano provato prima di lui, e l'avrebbero provato in seguito, le migliaia di altri europei, avventurieri, navigatori, balenieri, marinai e, chiaramente, anche missionari, che visitarono la Polinesia.
Dopo aver viaggiato per migliaia di chilometri di oceano, affrontando intemperie, freddo, malattie e mancanza di donne, per i marinai trovare un luogo caldo dove sinuose donne dalla nuda pelle bruna salivano nelle loro navi concedendosi spontaneamente, doveva rappresentare il ritorno all'Eden primordiale.

Gli europei notarono anche un'altra particolarità della cultura polinesiana: la presenza di mahu, ovvero di maschi cresciuti come femmine dalle loro rispettive famiglie. Questo accadeva soprattutto per il primo figlio maschio di ogni famiglia che, cresciuto secondo i canoni della femminilità, avrebbe dovuto riunire in sè tutte le qualità maschili e femminili. La tradizione del mahu, diffusa (sebbene molto meno) anche ora, colpì all'epoca la gente del Vecchio Continente tanto quanto il sesso libero, e da lì il passo per far nascere il mito di Tahiti come l'isola dell'amore e del sesso era breve.

Tahitiani fotografati a fine '900 in una missione protestante











Oggi, però, questo mito non è più vivo, almeno nelle sue forme originali.
Il 5 marzo 1797, missionari inglesi sbarcarono a Tahiti e diedero inizio a un veloce processo di cristianizzazione protestante degli indigeni. Dopo la conversione del monarca, la gente abbandonò presto i propri culti pagani e abbracciò la nuova religione.
I missionari imposero di rinunciare al sesso libero, alla nudità, alle altre tradizioni nel campo del sesso e, in compenso, diedero in cambio nel corso dell'800 Sacre Bibbie e alcool.

Paul Theroux, scrittore americano che negli anni '90 visitò Tahiti, notò come, paradossalmente, nell'isola fosse più facile vedere nude le turiste francesi, provenienti da una nazione che un tempo si scandalizzava per la nudità, che le Tahitiane, per le quali 200 anni fa la nudità era la norma.

Tutto ciò che oggi rimane del mito delle isole del sesso e dell'amore sono i depliant dei tour operators per coppie in luna di miele e, purtroppo, la forma di turismo più perversa, ben diversa dal mito dell'amore dei marinai del 1700: il turismo sessuale.

Friday, March 20, 2015

Taongi, la piccola perla contesa del Pacifico occidentale

Taongi, o Bokaak, è un minuscolo atollo della Micronesia, una landa arsa dal sole dei tropici, accarezzata dalla brezza dell'oceano e casa per migliaia di uccelli e pesci che in questo paradiso immerso nel suo silenzio senza tempo sono gli unici abitanti stabili.

Taongi dal satellite, foto NASA
E altro non potrebbe essere, visto il clima secco dell'atollo, privo di fonti d'acqua dolce, boschi e terreno coltivabile, ma solo capace di far crescere sul proprio suolo pochi cespugli e basse piante, perfette per i nidi di una delle avifaune più ricche del Pacifico. Fino ad alcuni secoli fa, è probabile che i navigatori indigeni delle Isole Marshall venissero appositamente in questa landa sperduta per cacciare uccelli.

      
Sula Piedirossi tra la vegetazione
Tra tutti gli altri, a Taongi si possono incontrare le grandi fregate con le loro enormi sacche gulari rosse, pivieri, sterne e numerose sule. Si possono vedere questi uccelli librarsi contro l'azzurro brillante del cielo, cacciare pesci in mare o nella laguna dell'atollo o covare in mezzo ai rovi le uova, da cui nasceranno poi piccoli pulcini che un giorno seguiranno i voli dei loro genitori al di là dell'oceano.

  
Squalo grigio del reef
Grazie all'isolamento e alla mancanza di una popolazione umana stabile, anche la fauna marina è in ottima salute: oltre a tutte le specie di coralli e di piccoli pesci che abitano la barriera corallina di Taongi, ci sono anche diversi squali, tra i quali lo squalo pinna nera e lo squalo grigio dei reef.

La lontananza dalla terra non ha però salvato per sempre la tranquillità di Taongi: scoperto nel '500 da Antonio Salazar, l'atollo sarebbe passato indenne attraverso i vari cambi di amministrazione, finchè nella seconda guerra mondiale il Giappone non vi stabilì una postazione radio e un aereo, che avrebbero portato gli USA a effettuare brevi bombardamenti su Taongi durante le fasi finali del conflitto, con il Giappone in ritirata. Peraltro, nell'88, si propose di utilizzare la splendida laguna di questo paradiso come discarica per rifiuti solidi, progetto che fortunatamente non è andato in porto.

      
Il relitto della Kinsy O Maru,
peschereccio incagliato qui nel 1983
Questa piccola perla del Pacifico, per quanto possa sembrare difficile, è finito in balia di una contesa ormai decennale tra l'autorità del Governo delle Isole Marshall, che lo ha dichiarato riserva naturale e che su di esso esercita legittima giurisdizione, e due pseudo-stati: il regno di Enenkio, un movimento che reclama di possedere l'Atollo di Wake (appartenente in realtà agli USA) e Taongi, e che ha messo in vendita quest'ultimo per 40 milioni di dollari, pur non possedendo di fatto l'atollo.
Anche il "Dominion of Melchizedek", una nazione fantoccio creata online da truffatori americani negli anni '90 ha reclamato come proprio Taongi, ma sul piccolo atollo nessun uomo,  nè allora nè oggi, è mai venuto ad abitare o a rifugiarsi dalla giustizia.

Wednesday, March 11, 2015

Roi Mata: la vita e la morte del più grande re delle Vanuatu

Il "Giulio Cesare" delle Isole Vanuatu, Roi Mata è stato uno dei capi e dei condottieri più celebrati e temuti dell'Oceania. Numerose leggende dell'arcipelago narrano della sua forza, della pace di cui la gente godeva sotto il suo comando e di vari aneddoti riguardo la sua vita, compreso quello sulla sua misteriosa fine.

L'entrata della grotta di Fels, Isola di Lelepa, dove morì Roi Mata 
Come spesso accade per le grandi figure della storia, spesso è difficile comprendere fino a che punto ciò che viene raccontato sia veritiero, specialmente quando la storia, come a Vanuatu, è stata tramandata oralmente per secoli.

                                         La scoperta


Del capo dei capi Roi Mata l'esistenza stessa non è stata confermata se non nel 1967, quando l'archeologo Josè Garanger guidò uno scavo nell'Isola di Artok, rinvenendo una cinquantina di scheletri e confermando le leggende che lo volevano sepolto lì con la sua famiglia.
La data della scoperta, 1967, distava circa sette secoli dall'anno in cui morì Roi Mata secondo le leggende locali: il tutto è curioso se si pensa che, dopo la sua morte, era stato proclamato dagli indigeni un taboo lungo proprio 700 anni, ovvero il divieto assoluto di toccare il suolo dell'Isola di Artok in rispetto alla fama del grande re.

Appena trascorsi i 700 anni, l'archeologia avrebbe riportato alla luce i resti di una delle figure più influenti della storia di Vanuatu, la cui storia ha portato l'UNESCO, nel 2008, a dichiare patrimoni dell'umanità la tomba di Roi Mata e la grotta di Fels, una cavità nel tufo vulcanico profonda 47 m dove egli morì.

Il presunto scheletro di Roi Mata
                                               La vita del re
Si dice che Roi Mata potesse controllare la quantità di pioggia sui campi e l'abbondanza di pesce lungo le coste. Questa è probabilmente una leggenda che la memoria orale degli abitanti di Vanuatu ci ha consegnato.

Si dice però anche che, dotato di grande carisma e magnetismo, Roi Mata fosse riuscito per primo a riunire le numerose e aggressive tribù cannibali delle Vanuatu di 800 anni fa, stabilendo una pace duratura, aumentando il potere delle donne, diminuendo il numero di duelli fra clan e unificando sotto il suo potere diverse isole. Questa, invece, è probabilmente una storia realmente accaduta. E come tutti i grandi e carismatici capi della storia, anche lui ha un posto di riguardo nella storia del suo paese.

Il rituale della pace, oggi rappresentato dagli indigeni per i turisti, fu in origine una festa creata da Roi Mata per cementificare l'unione tra i villaggi
                                                   La morte 
A sollevare molti interrogativi non è tuttavia solo la vita del grande re, ma anche e soprattutto la sua morte.
Le leggende dicono tutte che Roi Mata morì dopo aver mangiato. Sulla causa, però, non c'è accordo univoco: alcune dicono che egli morì dopo essere stato avvelenato dal fratello, geloso del suo potere, e altre che morì a seguito di un'indigestione.

Rappresentazione
di Roi Mata, grotta
di Fels
Qualunque fosse la causa, Roi Mata morì nella grotta di Fels, nell'Isola di Lelepa (appena al largo dell'isola maggiore Efatè) e poi da lì, secondo i racconti, fu portato ad Artok, il luogo dove fu sepolto, attraverso le caverne sotterranee di Tukutuku. L'esistenza di queste caverne è stata effettivamente verificata, ma non si è trovato il passaggio sottomarino che connetteva l'isola di Lelepa con l'isola di Artok.

Presso Artok il grande re fu sepolto assieme ad una cinquantina di altri individui, i quali si erano sacrificati, volenti o nolenti, per poterlo accompagnare nell'aldilà. Tra di essi c'era almeno una delle sue dieci mogli e vari individui anziani, ammalati, orfani, o presunte streghe: tutti "scomodi" alla società e quindi epurati volentieri, tramite avvelenamento, strangolamento o sepoltura da vivi.

Infine, fu dichiarato il tabù e l'inviolabilità dell'isola (fanua tapu): secondo gli indigeni, sulla tomba di Roi Mata non sarebbe ricresciuta la rigogliosa vegetazione che ricopriva il resto di Artok, e infatti, quando nel 1967 Garanger esplorò l'isola, scoprì il sito della sepoltura proprio al di sotto di una radura completamente spoglia nel mezzo della foresta tropicale.
La mancanza di presenza umana, anche di semplici navigatori indigeni che osassero approdare per dormire o rifugiarsi da una tempesta, ha reso Artok un paradiso per la sua flora e la sua fauna.
Un magnifico giardino naturalistico degno di ospitare la salma del più grande re di Vanuatu.

L'isola di Artok

Thursday, March 5, 2015

Canoe, coraggio e costellazioni: l'arte della navigazione nel Pacifico

Abbandonare la terraferma e affrontare il mare è uno dei gesti più frequenti che vengano compiuti ogni giorno sulla Terra. Centinaia di milioni di pescatori e navigatori lo fanno oggi, e altrettanti prima di loro l'hanno fatto dalla notte dei tempi: eppure, dietro un gesto così comune nelle società umane, si nascondono quel coraggio di affrontare l'ignoto e quello stesso spirito di esplorazione che hanno garantito al genere umano il suo progresso e le sue scoperte negli ultimi milioni di anni.

E di questo coraggio, i popoli del Pacifico sono tra i più grandi ambasciatori: dotati solo di conoscenze tramandate oralmente e canoe artigianali, gli antichi Melanesiani, Micronesiani e Polinesiani hanno raggiunto quasi tutte le 30 000 isole del Pacifico, superando tempeste e sterminati chilometri di mare, raggiungendo forse l'America del Sud e l'Antartide (una leggenda Maori racconta che un certo Ui Te Rangiora, attorno al 700 d.C., guidò una canoa da guerra a Sud fino a un luogo dove il mare era ghiacciato) e scrivendo uno dei capitoli più incredibili nella storia dell'umanità.

Canoa Hawaiiana originale. Disegno di Herb Kawainui Kane
L'arte dell'andar per mare
I veri navigatori erano persone di grande influenza nelle antiche società del Sud Pacifico. Si riteneva che essi potessero controllare il mare e il tempo metereologico, che potessero curare gli uomini e che fossero in diretto contatto con gli dei. Navigare non era solo svago o necessità, era un'arte.
E come tutte le arti, non era casuale: i navigatori conoscevano bene le onde, i colori del cielo, i movimenti dei banchi di nuvole e ancor di più le costellazioni, e per orientarsi sfruttavano anche le migrazioni degli uccelli. Si è ipotizzato ad esempio che tenessero con loro durante i viaggi le Fregate, che li avrebbero aiutati a individuare la terra, o che seguissero le migrazioni del Piviere dorato del Pacifico per raggiungere le Hawaii da Tahiti, o le migrazioni di un cuculo, l'Urodynamis Taitensis, per raggiungere la Nuova Zelanda dalle Isole Cook.

Canoa con bilanciere
Canoe ordinarie per viaggiatori straordinari
Le canoe, unico mezzo materiale delle esplorazioni, sono uno dei capisaldi della cultura dei popoli del Pacifico. O forse, ne sono addirittura l'origine: chi può dire se la Polinesia che conosciamo oggi sarebbe nata lo stesso, se i navigatori dell'Asia non si fossero avventurati nell'oceano con le loro canoe?

La tipica canoa dei popoli dell'Oceania, nota come Va'a in Tahitiano e Samoano, Wa'a in Hawaiiano e Vaka nella lingua delle Isole Cook (il termine waka da cui sono discesi questi è di origine malese) è dotata di un bilanciere, un componente esterno allo scafo della barca che è collegato ad essa per aumentarne la stabilità. Anche questo, come il termine con cui la canoa è indicata, ha origine negli arcipelaghi dell'Indonesia, dove i popoli Austronesiani, da cui sono discesi tra gli altri Malesi, Aborigeni e Polinesiani, furono i primi a farne uso.

Tartaruga scolpita sulla canoa di Anaweka
Sono poche le testimonianze circa la costruzione originale delle canoe. Recentemente in Nuova Zelanda è stata rinvenuta la canoa denominata Anaweka, che si stima avere 3400 anni: per il resto, le moderne imbarcazioni in Oceania sono basate sugli appunti e sui disegni dei primi europei che visitarono l'Oceania, ma che giunsero quando la vena di coraggio e di esplorazione dei navigatori delle isole era in via di esaurimento.

Oggi le conoscenze tradizionali sulla navigazione, nonostante l'influenza del mondo moderno e la perdita di molte tradizioni, sono ancora vive, specialmente negli atolli più isolati o nelle nazioni che intraprendono programmi per salvare il proprio patrimonio culturale.
Negli ultimi decenni, la sapienza di navigatori leggendari come il Micronesiano Mai Piailug ha contribuito a salvare molte delle tradizionali tecniche di viaggio, e nuove imbarcazioni basate sulle canoe originali, come la Hokule'a e la Alingano Maisu, che ha attraversato senza alcuna strumentazione il Pacifico nel 2007, hanno mantenuto viva l'arte della navigazione, emblema delle culture del Pacifico.